Trasformazione digitale, trasformazione dirigenziale

(di Alessandro Capezzuoli, funzionario ISTAT e responsabile osservatorio dati professioni e competenze Aidr) Il paradosso del gatto di Schrödinger è tra i paradossi moderni più conosciuti. È nato con l’intento di dimostrare l’inapplicabilità della meccanica quantistica al mondo macroscopico, giungendo alla conclusione che, in uno stato di sovrapposizione quantistica, un gatto potrebbe essere contemporaneamente vivo e morto, se collegato a un evento subatomico casuale.

Negli anni, il paradosso del gatto di Schrödinger è stato esteso metaforicamente a molte situazioni della vita reale perché la realtà ha ampiamente dimostrato che si possono verificare accadimenti strani almeno quanto il duplice stato quantico del gatto. A questo gioco, non può mancare il paradosso del dirigente di Schrödinger, quello che prende in considerazione uno stato di “distopia quantica sociale” in cui i dirigenti possono essere contemporaneamente troppi e pochi.

Sono troppi, è evidente, perché il sistema e la piramide del potere, per funzionare, hanno bisogno di un esercito di manager ammaestrati dalla ginnastica di obbedienza, che a loro volta si circondano di collaboratori consenzienti e privi di senso critico. Si tratta di una nuova forma di schiavitù regolata non dalle frustate ma dalla distribuzione gerarchica di privilegi e di briciole di potere. Basta far parte della cordata giusta, per scalare in fretta la piramide e raggiungere un qualche tipo di successo. I libertari colti potrebbero pensare che si tratti di una gloria effimera sintetizzata efficacemente da Francesco Guccini, nell’Avvelenata, con tre parole efficacissime, ma, come si dice, solo gli ignoranti sono sicuri di quello che dicono e di questo ne sono certo …

Per la scalata, oltre ad agire apertamente o meno in nome di qualcuno più potente, servono anche una buona dose di cinismo e di arroganza, o, meglio, di tracotanza. Le capacità spesso sono un optional, anzi, penalizzano. Invece, un curriculum ricco di obiettivi apparentemente prestigiosi, che spesso sono costruiti ad arte o sono frutto dell’appropriazione indebita del lavoro altrui, si è dimostrato un ottimo strumento per intraprendere la scalata. La conoscenza e la consapevolezza, nelle selezioni, rappresentano un minus, poiché una testa libera, pensante e indipendente infastidisce, intralcia gli obiettivi del sistema e, soprattutto, compromette il buon funzionamento della piramide.

Proprio per questo, la pubblica amministrazione in molti casi è arrivata al paradosso di selezionare i manager attraverso procedure superficiali, che, volutamente, non approfondiscono le capacità reali, ma si limitano a chiedere ai candidati un curriculum e una imbarazzante lettera motivazionale. Al contrario, i concorsi rivolti al reclutamento del personale non dirigenziale seguono orientamenti diametralmente opposti: le selezioni degli “inferiori” prevedono spesso prove multiple complesse, titoli a cui attribuire punteggi sulla base di regole fantasiose e improbabili e una serie di misure di sicurezza di ogni tipo per garantire, si fa per dire, una certa trasparenza.

L’ostacolo principale, nell’attuazione della trasformazione digitale, è essenzialmente questo: ogni tipo di cambiamento passa per le scelte di dirigenti e collaboratori che hanno tutto l’interesse a lasciare le cose inalterate o che, gattopardianamente parlando, cambiano tutto affinché non cambi nulla. In tutto ciò, il gatto di Schrödinger è un prezioso alleato perché permette, a chi agisce in malafede, di confondere gli stati quantici e di sostituire il senso del dovere col senso del potere, o la parola dirigere con la parola comandare. Nonostante il CAD preveda un insieme di compiti ben definiti e uno e un solo Responsabile per la Transizione Digitale, a cui è richiesta una precisa visione strategica e a cui è attribuito un ampio potere decisionale, le amministrazioni pubbliche tendono a tralasciare le linee guida, a sminuire la figura del RTD, e a dare libero spazio alle libere interpretazioni. Questo orientamento non sarebbe nemmeno sbagliato, se la libera interpretazione fosse supportata dalla consapevolezza e dalla conoscenza. Ma chi controlla l’operato del RTD e dei comitati di valutazione? Anche in questo caso, esistono delle procedure di valutazione delle prestazioni dirigenziali, che purtroppo sono gestite dalla stessa dirigenza e prevedono una valutazione ridicola degli obiettivi rivolta esclusivamente all’autoattribuzione di un premio in denaro elargito più o meno democraticamente a tutti, meritevoli e non.

Certo, se gli obiettivi fossero qualcosa di diverso rispetto al perseguimento degli  interessi personali e al mantenimento dei privilegi e della posizione di comando, la valutazione avrebbe una valenza diversa e la collettività ne trarrebbe beneficio. E se la valutazione fosse guidata dagli “inferiori”, e non dalla piramide, ne trarrebbero beneficio anche i lavoratori. A supporto di questa struttura sociale contorta, ci sono delle regole assurde e delle dinamiche contorte che proteggono gli interessi delle caste e danneggiano le fasce deboli, regole che solo in un Paese privo di identità e di senso critico possono essere accettate. Prima fra tutte la regola assurda, per alcune aree scritta, per altre sottintesa, che prevede la rotazione degli incarichi della dirigenza. Questo significa che un manager dell’area giuridica è difficilissimo che venga sostituito o demansionato per manifesta incapacità: il massimo della punizione a cui può andare incontro è il passaggio a un altro incarico, magari presso altre amministrazioni, a occuparsi di argomenti di cui non sa nulla, per esempio di trasformazione digitale. Quindi, nella pubblica amministrazione, accade ciò che Jhonatan Franzen ha riassunto magistralmente, nel libro Le correzioni, con queste parole: “i suoi dirigenti erano stati rimpiazzati come le cellule di un organismo vivente, o come le lettere in una partita di Substitution in cui merda diventava merla poi gerla e poi perla”.

Non sempre e non dappertutto è così, per fortuna. Ci sono dirigenti liberi, indipendenti e con la capacità e la propensione al cambiamento, ma purtroppo sono pochi e hanno la vita estremamente difficile. Le loro idee brillanti passano per la valutazione di comitati di valutazione costituiti perlopiù da dinosauri prossimi alla pensione, che lavorano da sempre nello stesso modo e non hanno alcun interesse a cambiare le cose perché l’unico interesse che coltivano è mantenere una posizione di comando. Di conseguenza, il cambiamento digitale auspicato dalla politica è, nella maggior parte dei casi, un percorso a ostacoli estremamente lento, che sfugge completamente a qualsiasi tipo di regola e di controllo . Per accelerare questo processo è necessario trasformare la dirigenza, selezionando manager competenti e capaci.

La parola competenza, come ho avuto modo di specificare in altri articoli, deve essere usata con parsimonia perché, se non viene associata a una definizione precipua, rischia di non avere un vero e proprio significato. L’evidenza dimostra che i migliori manager non sono selezionati esclusivamente sulla base delle “competenze” (reali o presunte) tecniche, ma perlopiù attraverso la verifica di un insieme di caratteristiche, difficilmente individuabili, che approfondiscono gli aspetti culturali e caratteriali dei candidati. Al contrario di quanto si pensi, la capacità di raggiungere degli obiettivi, pur essendo una caratteristica importante, spesso subordinata alle competenze tecniche, non è la caratteristica principale di un dirigente. La caratteristica principale è la capacità di creare le condizioni e la cultura lavorativa per permettere a un gruppo di raggiungere degli obiettivi. Si tratta di una capacità rara da trovare perché comprende un coacervo di caratteristiche personali, che possono essere valorizzate o sminuite dalle dinamiche interne e che potrebbero entrare in conflitto con l’intera organizzazione.

Per esempio, è comprovato che la responsabilizzazione del personale e la riduzione del controllo e delle misure oppressive, sul lungo periodo, ripagano molto più di un regime oppressivo e terroristico. Purtroppo, se l’orientamento aziendale prevede una cultura del lavoro basata sulla paura e sulle punizioni, questo genere di caratteristica potrebbe non emergere facilmente o dimostrarsi addirittura controproducente per quella particolare situazione. Lo stesso discorso vale per quei manager che tendono a favorire il benessere, l’inclusione e la condivisione della conoscenza. In un sistema fortemente competitivo, in cui prevalgono quasi sempre l’egoismo e gli interessi personali ai danni del benessere collettivo, la condivisione è controproducente: non sempre si può vantare un team composto da menti newtoniane che guardano lontano, salendo sulle spalle dei giganti. È evidente che alcune logiche distorte si possono cambiare soltanto con una narrazione diversa del lavoro e attraverso una cultura differente. Se per certi aspetti il benessere collettivo viene considerato un’utopia marxista, i risultati del malessere collettivo, perpetrati dal sistema piramidale, gerarchico e clientelare, sono una distopia reale difficilmente sovvertibile. Il potere decisionale e la visione strategica sono invece fondamentali per il raggiungimento di un obiettivo qualsiasi.

Purtroppo, la parola obiettivo è astratta e fumosa almeno quanto la parola competenze: mentre è chiarissimo, per un’azienda privata, quale sia l’obiettivo da raggiungere, ovvero il profitto attraverso la vendita di prodotti o servizi, per le amministrazioni pubbliche gli obiettivi sono spesso pure invenzioni della fantasia senza alcun tipo di valenza o di riscontro pratico. Un obiettivo può essere lo studio dei neutrini attraverso LHC (l’acceleratore di particelle Large Hadron Collider), ma può anche essere la compilazione di un foglio di calcolo o la creazione di documenti inutili: a tutti gli obiettivi, per un’inspiegabile e ottusa logica di uguaglianza del pensiero, che continua a essere perpetrata dal diabolico binomio amministrazioni-sindacati, viene attribuita la stessa importanza ai fini carrieristici e remunerativi.

Questo significa che, mentre la popolazione ha ben chiara la differenza tra i benefici derivanti dalla scoperta di un macchinario per la cura dei tumori e un foglio di calcolo su cui vengono inserite manualmente delle x, per i manager, chiusi tra le mura di una pubblica amministrazione qualsiasi, mancanti di una vera visione strategica, gli obiettivi del personale sono confusi con delle attività assolutamente inutili e routinarie da utilizzare esclusivamente per dimostrare il raggiungimento dei propri obiettivi e accaparrarsi un congruo premio in denaro. E si torna all’inizio dell’articolo e al paradosso degli obiettivi di Schrödinger: un obiettivo, in uno stato quantico dipendente dalla gestione manageriale, può essere contemporaneamente prestigioso o inutile. In questo caso, però, la casualità degli eventi quantistici c’entra ben poco: dipende tutto dalla causalità con cui si scelgono i dirigenti.

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