Chiudono i punti vendita al dettaglio nell’America devastata dal cosiddetto “Retail Apocalypse”, il fenomeno a causa del quale stanno chiudendo centinaia di attivita tradizionali a vantaggio del sempre più diffuso acquisto di beni on-line. L’apocalisse, come viene definita oltreoceano questa situazione che solo fino pochi anni fa sarebbe stata impensabile colpisce, senza esclusione di colpi, i grandi marchi, le catene distributive, i centri commerciali. In sintesi colpisce i luoghi fisici dello shopping. È passato poco più di un mese da quando un autentico paradiso per i bambini, vale a dire il colosso mondiale dei giocattoli, lo statunitense Toys «R» Us, che poteva contare su 1600 punti vendita sparsi nel territorio americano ed oltre 64 mila dipendenti, ha dichiarato bancarotta, un crac paragonabile a pochi altri.
Nel 2017 oltre venti grandi catene commerciali statunitensi si sono avviate al fallimento. Non sorridono neppure i simboli per eccellenza del consumismo a stelle e strisce e marchi come Macy’s e Sears ne sono un valido esempio. I primi chiuderanno entro il prossimo anno ben 100 punti vendita (il 15% del totale) mettendo a rischio non meno di 10.000 posti di lavoro, mente i secondi che hanno recentemente chiuso importanti accordi con Amazon per adattarsi alla nuova tendenza di business on line, chiuderà dopo il prossimo Natale 65 punti vendita.
L’abbandono da parte dei grandi marchi delle strutture, dove finora avevano svolto con eccellenti risultati, il loro commercio, porta inevitabilmente ad una ricaduta sul mercato immobiliare dedicato al comparto commerciale. Le immagini di queste cattedrali del consumismo abbandonate e decadute, sono parte delle nuove configurazioni urbane.
Secondo studi effettuati da agenzie leader operanti nel settore finanziario/immobiliare, nei prossimi anni sarà necessario chiudere oltre il 10% degli spazi “retail” degli Stati Uniti d’America, convertendo quegli edifici e quegli spazi per altri usi e necessariamente rinegoziarli per affitti più bassi.
Tutto questo, a differenza di quanto potrebbe trasparire da un superficiale esame della situazione che si sta creando in America, che come spesso avviene anticipa i tempi di ciò che avverrà in seguito in altre parti del mondo, Italia compresa, non ha nulla a che fare con la crisi economica. L’economia americana infatti va tutt’altro che male, il tasso di disoccupazione è molto basso, sicuramente nemmeno lontanamente confrontabile al nostro, la fiducia dei consumatori è tornata a salire ai livelli precedenti la grande crisi del 2009.
La chiusura di strutture fisiche come i centri commerciali, da sempre simboli incontrastati ed innegabili dell’american way of life, oltre al fallimento dei grandi marchi vanno ricercati nel cambiamento delle abitudini dei consumatori e nella mancata capacità di adeguarsi ad un mercato, le cui esigenze cambiano velocemente. L’e-commerce è riuscito negli anni a convogliare verso il proprio mondo molte delle risorse del mercato, tuttavia la vendita on-line rappresenterebbe soltanto il 9% del mercato statunitense. Ne consegue che non può certo essere questa l’unica causa di questa “Apocalisse”, che va ricercata in un più ampio raggio. Sono cambiati gli stili di vita e la nuove generazioni, che giova ricordarlo hanno un potere di acquisto minore di quelle precedenti, privilegiano il consumo delle esperienze a quello delle cose.
Tuttavia la verità sembra essere un’altra, e se confermata potrebbe preannunciare una catastrofe di portata enorme. Una autentica spada di Damocle sulla testa di milioni di americani.
Secondo alcuni analisti del settore degli investimenti finanziari, ciò che sta facendo crollare il commercio al dettaglio Usa è il fatto che, negli ultimi anni, allo scopo di fronteggiare la pesante crisi, i grandi marchi e molte catene distributive si sono “sovraccaricati di debiti” avventurandosi in spericolate operazioni finanziarie che secondo uno studio di Bloomberg, porteranno ad una “bolla debitoria” che potrebbe scoppiare nei prossimi anni con effetti spaventosi sull’economia americana, che si troverà a fronteggiare la perdita di circa 8 milioni posti di lavoro e questo non a causa del cambio di tecnologia, ma di uno schema finanziario, cosiddetto “predatore” che arricchirà la solita élite a scapito dell’economia reale.
L’ennesima riprova di come la finanza rapace è un pericolo per la libertà economica e per l’impresa.
foto: Forbes